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Il ruolo dell’Europa nella competizione digitale tra Cina e Stati Uniti

La trasformazione digitale, resa possibile dai recenti sviluppi tecnologici, promette di rivoluzionare i modelli lavorativi e produttivi di una moltitudine di settori, dal manifatturiero alla sanità, dall’intrattenimento all’educazione, fino a toccare i campi della sicurezza e della difesa. I giganti americani e cinesi aprono il sentiero. L’Europa compie i primi passi per competere, ma la strada è lunga e complessa.

Machine learning, Internet of Things, industria 4.0 sono le parole chiave della quarta rivoluzione industriale. L’Intelligenza Artificiale (AI) è certamente un elemento alla base del processo, con le sue applicazioni e ricadute apparentemente infinite.
Le attività di AI consistono nello sviluppo di programmi informatici che permettono di simulare alcune funzionalità cognitive dell’essere umano proponendo soluzioni a problemi o prendendo decisioni.

Programmi di questo tipo sono già utilizzati, ad esempio, per sviluppare modelli di organizzazione aziendale, analizzare contratti legali, creare portafogli finanziari.

Osservando la classifica di Forbes 2019 ‘Top 100 Digital Companies’ si nota a colpo d’occhio come il mercato sia dominato da aziende americane e cinesi, con qualche presenza giapponese e coreana. La prima compagnia europea che troviamo nella lista è la tedesca SAP SE, che si posiziona ventiduesima.

Se la Cina fino a qualche anno fa basava la propria economia sull’esportazione manifatturiera, nell’ultimo decennio ha cominciato a sviluppare una propria industria del digitale nei comparti più innovativi. Anche grazie a una struttura governativa fortemente centralizzata è riuscita in breve tempo a proporsi come principale competitor dei colossi nordamericani, con campioni nazionali come Tencent e Alibaba.

Il modello americano si basa fondamentalmente sul lassaiz-faire. Un sistema che garantisce dinamicità e innovazione, spinto dalla competizione tra gli attori, e che trova un suo limite nella difficoltà di regolamentare ogni singola situazione. Se da un lato il potere delle aziende della Silicon Valley deriva dalla mancanza di limitazioni prefissate da parte del legislatore, dall’altro le agenzie governative trovano difficoltà nell’implementare strategie uniformi. Un esempio è lo stop al progetto Maven: una collaborazione lanciata nel 2018 tra il Dipartimento della Difesa e Google per migliorare i meccanismi di riconoscimento visivo dei droni militari. Collaborazione non rinnovata dopo le proteste dei dipendenti del colosso californiano.

L’Europa, al momento, è un terreno di scontro tra i big players esterni e negli ultimi anni si è limitata a fornire una cornice legale entro la quale le aziende devono operare.
Per il futuro, le istituzioni europee si stanno muovendo verso una direzione molto più ambiziosa: lanciare l’Unione come polo alternativo.

Le questioni principali da affrontare sono l’assenza di una politica industriale comune, la mancanza di investimenti adeguati e la rigidità normativa.

La Francia ha definito la trasformazione digitale una priorità strategica. Ha creato un’apposita task force per sviluppare un quadro generale di azione: obiettivo raggiunto con le linee guida del documento ‘AI for Humanity’ pubblicato nel 2018.
La Germania non ha sviluppato un piano nazionale, lasciando l’iniziativa in mano ai Lander, mentre Estonia e Finlandia stanno sperimentando gli algoritmi all’interno della propria pubblica amministrazione.

Nel 2016, secondo il McKinsey Global Institute, gli investimenti privati europei nel settore AI si aggiravano intorno ai 2,5 miliardi di euro, in confronto agli 8 della Cina e ai 18 degli Stati Uniti.

Inoltre, secondo Stratfor, la SAP SE è l’unica azienda hi-tech europea ad essere valutata a più di 100 miliardi di dollari. La stessa compagnia di intelligence sostiene che in Europa ci siano solamente due dozzine di “unicorni” – nuove imprese con una valutazione di almeno un miliardo di dollari. Negli Stati Uniti sono più di un centinaio. Soprattutto, circa metà delle start up europee attualmente impegnate nel campo dell’IA hanno sede nel Regno Unito. La Brexit avrà, quindi, importanti ripercussioni, non soltanto geopolitiche ma anche per la politica tecnologica dell’Europa.
Un altro elemento a sfavore è la dimensione del mercato, visto che il bacino di utenti europeo è di gran lunga inferiore a quello americano e soprattutto a quello asiatico.

Dal punto di vista normativo, il sistema europeo si basa sulla civil law, ossia la legge deve anticipare le situazioni, mentre lo sviluppo tecnologico apre scenari non sempre prevedibili a priori. Ad esempio, il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) prevede una distinzione tra dati personali e non personali e questo tipo di distinzione si sta rivelando superata nei fatti.

Inoltre, la regolamentazione europea richiede che lo stoccaggio fisico dei server risieda all’interno dei confini comunitari: ulteriore elemento che aggiunge complicazioni legali e logistiche.

Una partita persa in partenza? Non è detto.

L’Europa è il più grande hub per la ricerca robotica e per l’Intelligenza Artificiale e vanta un numero di pubblicazioni scientifiche superiore sia a quello cinese che americano, tanto che si sta pensando di creare un’istituzione europea di ricerca sull’innovazione digitale che possa essere un riferimento mondiale, sul modello del CERN di Ginevra.

La nuova Commissione Europea ha proposto un budget da 100 miliardi di euro per il finanziamento della ricerca in tecnologie digitali (programma Horizon Europe), che supera di 25 miliardi il precedente.

Se approvato, andrà ad aggiungersi ai i programmi InvestEu (15,2 miliardi) e Digital Europe Program (9.2 miliardi).

Spingere sugli investimenti, limitare il brain drain, snellire e uniformare la regolamentazione europea e migliorare il coordinamento tra gli Stati Membri potrebbe consentire all’Europa di emergere come protagonista in questo scenario.
Se l’enfasi europea sulle politiche di welfare viene spesso indicata come un limite nella competizione di mercato, in questo caso la UE la potrebbe trasformare in un vantaggio competitivo.
Si creerebbe un modello che rende possibile la convivenza tra gli interessi dei cittadini, delle compagnie e dello stato, e quindi fornire una via alternativa alla deregolamentazione americana e al centralismo cinese.

Di Matteo Daniele Turato

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